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Ubi dubium, ibi libertas

“Un’ingenua difesa della vocazione universalistica della cultura.”
Updated:  at  02:32 AM

This piece is something I wrote a couple years ago.

I’ll keep it in Italian, automatic translation is easy and accurate nowadays.

Premessa

Ho scritto quanto segue non per sostenere una posizione specifica, né per dare lezioni che non mi sento di avere alcun diritto di dare. Sono solo alcune considerazioni, che forse aiuteranno a comprendere il mio punto di vista su alcune questioni e a discuterne in modo più aperto.1

Non è mai semplice sostenere posizioni impopolari e non è semplice affrontare temi complessi e spesso controversi, di cui spesso si travisa non solo l’importanza ma il motivo stesso della discussione. Per questo voglio limitarmi a trattare l’argomento nel merito, senza eccessive digressioni e senza tentare di rimarcare o analizzare questioni che sono decisamente fuori dalla mia portata. Non tenterò di dibattere su cosa sia la cultura umanistica, su quale sia il suo valore, né tanto meno proverò a delineare o circoscrivere le basi della nostra cultura. Le uniche digressioni che mi concederò saranno sulla mia esperienza personale, per aiutare nel comprendere il mio punto di vista e ogni eventuale distorsione nel mio giudizio.

Il dibattito sul valore e sulla necessità degli studi classici nella società moderna si può ricondurre a due contrapposte linee di pensiero, o meglio è percepita dall’opinione pubblica come la contrapposizione tra di esse: una polverosa visione umanista, passatista, restia al cambiamento e una concezione positivista estrema, quasi asettica, con una cieca fiducia nella scienza e nel progresso. Voglio rimarcare, nel caso non fosse già palese, quanto il mio giudizio sia negativo e denigratorio verso entrambe. In primo luogo perché non credo, e voglio sperare a ragione, che esistano realmente, ritengo siano unicamente la nostra percezione esasperata dal dibattito tossico a cui ci hanno abituato social media e decenni di mancanza di un confronto pubblico serio e ragionato sui temi concreti. In secondo luogo perché credo che sia deprecabile pensare di poter operare una qualsiasi distinzione di tale tipo, se non nella sfera delle suggestioni superficiali e disinformate che può offrire un dibattito televisivo in prima serata.

La banalità dell’ignoranza

La gente è ignorante. Ironicamente questa frase si ripropone quasi sistematicamente quando si parla di educazione. Non intendo rimproverare chi pensa o afferma questo, è semplicemente la verità. Rimprovero chi crede di non essere ignorante Io sono ignorante e chi sta leggendo sarà probabilmente ignorante quanto me. L’ignoranza è per l’essere umano quella che in matematica viene detta una “proprietà banale”, una proprietà ovvia ed immediatamente conseguente a tal punto da non richiedere dimostrazioni. Volendo proseguire in questo parallelismo ci è utile notare che spesso in matematica una proprietà banale lo è solo dipendentemente dal contesto in cui viene considerata. Spesso considerazioni ovvie sotto un punto di vista non lo sono affatto da un altro.

Questo è quello che accade anche quando proviamo ad argomentare sulle questioni più disparate, a volte diamo per scontate argomentazioni che sarebbero utili al nostro interlocutore per comprendere il nostro ragionamento, altre volte ci dilunghiamo in questioni che invece per l’altro sono assolutamente ovvie e si finisce per perdere interesse.

Perché dico tutto ciò? Perché nel discutere dell’importanza dell’insegnamento delle lingue classiche, la mia prima impressione è stata quella di grande ignoranza e di assoluta incomprensione delle due parti. Non dovrebbe sorprendere, dal momento che come abbiamo detto, l’essere umano è banalmente ignorante. Ciò che è più difficile è quantificare la propria ignoranza e imparare a gestirla, a conviverci serenamente.

Per questo vorrei che vi rendeste conto che di ciò che state studiando o avete studiato non sapete quasi nulla, che avete appena scalfito la superficie. Che non sapete nulla o quasi di Omero, che avete solo una vaga idea di chi fosse Eraclito, che non ricordate che qualche evento sporadico della vita di Seneca e qualche piccolo frammento delle sue opere. Avete letto forse più di uno scritto di Erasmo da Rotterdam che non sia il Moriae encomium (Elogio della follia)?2 Così come sono pronto a scommettere che non avete che una vaga idea di cosa sia la cromodinamica quantistica,3 che non ricordate nel dettaglio i meccanismi di respirazione cellulare, ammesso che l’abbiate mai saputo. Sono certo che ben pochi saprebbero descrivere con minuzia tutte le ere geologiche terrestri, o la composizione chimica e la struttura interna dei maggiori satelliti di Saturno.

Vi offende, almeno un minimo, che vi stia dando implicitamente degli ignoranti anche su questioni di cui io non so assolutamente nulla e a cui forse avete dedicato buona parte della vostra vita? Se è così siamo molto vicini al cogliere l’essenza del problema che finisce sempre per mutilare il dibattito sull’educazione, al comprendere che è proprio quel misto di orgoglio e presunzione che ci intrappola.

A mio avviso ci sono tre sfumature del problema che corrispondono grossomodo a queste nostre osservazioni quando veniamo posti dinanzi a un argomento a noi estraneo:

Proverò ad analizzare più nel dettaglio questi aspetti, però permettetemi prima un piccolo excursus.

Il mio modo di rapportarmi con il latino ha sicuramente attraversato queste tre sfumature in questo preciso ordine. Probabilmente è la naturale evoluzione per chi viene forzato a studiare senza troppe pretese qualcosa che non avrebbe voluto.

Terminati i tre anni di scuola media, la scelta della scuola superiore era ricaduta per me sul liceo scientifico, anche se sarebbe più giusto dire che mi sia stata imposta dai miei genitori. Avrei voluto frequentare un istituto tecnico ma dopo una serie interminabile di litigi la soluzione di compromesso era stata l’opzione scienze applicate, un corso di studi introdotto quell’anno che in sostanza prevedeva il percorso usuale del liceo scientifico ma con informatica al posto del latino. Dopo essermi iscritto ho saputo che non si sarebbe avviato il percorso di scienze applicate per i troppi iscritti e l’incapacità dell’istituto della mia città di farvi fronte. In sostanza, da ragazzino assolutamente convinto dell’inutilità del latino, mi sono ritrovato a doverlo studiare e a constatare che no, decisamente non mi interessava. Non è mai stato uno studio impegnato il mio, sicuramente superficiale e sbrigativo, pur con ottimi risultati. Quello che ne ho ottenuto è stato di aver perso moltissimo tempo e di ricordare quasi nulla della lingua latina. Durante gli anni dell’università il mio rammarico per ciò è sempre stato compensato dalla consapevolezza della finitezza dei nostri mezzi e dell’incapacità di mandare e mantenere in memoria qualsiasi informazione.

Quello di cui non mi sono reso conto, se non recentemente, è che ho sempre lasciato che la mia naturale preferenza per determinati argomenti o questioni si tramutasse in svalutazione di ciò che non mi interessava, o che non capivo. Da persona non certo colta, completamente avversa all’ostentazione della conoscenza e della cultura, non mi sono mai soffermato a riflettere sui facili giudizi che mi permettevo di dare sulle questioni più disparate.

Ovviamente non è pensabile di pretendere che tutti possano interessarsi di ogni argomento, però si può imparare a comprenderne il valore, a gestire in modo più maturo la propria ignoranza.

Proviamo ora a scendere nel dettaglio delle tre fallacie in cui tendiamo a cadere:

“È inutile”

Per definire qualcosa “inutile”, bisogna definire una qualche funzione di utilità rispetto alla quale definire questa inutilità.

Per quale fine è inutile?

In uno schema di pensiero profondamente relativistico è facile cogliere le infondatezze degli assoluti.

Proviamo a riflettere, per quanto possibile senza preconcetti, sul valore di un evento o un’azione: come possiamo valutarla non celandoci dietro facili schermi semantici (parole o concetti solo apparentemente sensati, pensiamo all’idea di “natura” o “progresso”) o ideologie simil-religiose (la convinzione che la tecnica risolverà ogni problema dell’umanità ha chiaramente connotati religiosi).

Ogni tentativo sufficientemente profondo, sfocia inevitabilmente in un assoluto, oppure in una nichilistica svalutazione generalizzata.

“Ma alcune cose sono inutili! Basta spiegare rispetto a cosa, no?”

Certo. Perlomeno da un punto di vista pratico. Siete però in grado davvero di definire questo metro di giudizio e valutare l’impatto di un’azione specifica rispetto ad esso. I fenomeni sociali di ogni tipo sono notoriamente difficili da valutare e prevedere.

Nel caso specifico degli studi classici il problema è sia definire la funzione di utilità con cui stiamo commisurando le nostre opzioni, sia capire quale impatto essi hanno sulla funzione.

”Non mi interessa”

Concedetemi di indulgere nuovamente nel mio relativismo.

Come puoi valutare a priori l’interesse per qualcosa senza conoscerlo?

L’interesse intellettuale verso qualcosa è soggettivo e dunque insindacabile. Purtroppo però siamo fallibili e dalle poche informazioni periferiche che possiamo carpire da un primo approccio verso temi a noi sconosciuti, siamo facilmente ingannati.

Vorreste forse disinteressarvi della vostra più grande passione prima ancora di averla scoperta tale?

Una mente curiosa e vivace credo non faccia distinzioni schifiltose di temi, invece ama cimentarsi costantemente e incessantemente in una ricerca metodica ma indiscriminata.

”Non si può sapere tutto”

Vero. Però questo non può legittimare a criticare senza conoscere

Il terzo punto ci porta infine a fare il salto dalla nostra dimensione individuale a quella collettiva.

Se è vero che ognuno ha totale discrezionalità nello scegliere a cosa appassionarsi, nessuno ha davvero contezza di tutto lo scibile umano e dunque nessuno può avere l’autorevolezza di valutare, secondo una qualche sua metrica, cosa sia necessario (ossia “utile”) apprendere e cosa no. Notare bene: questo è vero per qualunque metrica egli possa scegliere.

Nessun essere umano, perlomeno. Forse a breve avremo un LLM che potrà darci una sua risposta, liberi poi di scegliere se vorrete credergli o meno.

L’inganno dello specialismo

Ho letto con interesse l’apologia di Dorothy L. Sayers (1947), The Lost Tools of Learning,4 per lo studio del latino e ho apprezzato moltissimo la passione e il fervore di una persona così chiaramente appassionata del suo ambito di studio.

Sono assolutamente d’accordo sulla necessità di reintrodurre lo studio della logica formale, soprattutto per chi come noi italiani parla abitualmente una lingua che si presta facilmente a imprecisioni e che spesso privilegia costrutti poco rigorosi e che presentano una grande differenza tra denotazione e senso. E sono altrettanto d’accordo sulla necessità di insegnare ai ragazzi un metodo di discussione, non solo di ragionamento e di studio, che li renda in grado di affrontare un confronto in modo razionale e consapevole.

Non posso che altresì concordare che le varie “materie” sono tali in quanto necessarie di essere trattate e modellate con i giusti strumenti per poterle padroneggiare, che bisognerebbe dare meno importanza alla distinzione tra di esse e più alle possibili relazioni.

Sono però rimasto piuttosto perplesso nel constatare come venga implicitamente posto lo studio secondo il syllabus medievale del trivio e del quadrivio5 come l’unica possibile soluzione. Perplessità che deriva da quella che mi è parso l’approccio tipico di chi cade negli errori di eccessiva settorialità e specificità che lei rimproverava. Spero non sorprenda se rimprovero a una persona di così grande cultura un errore così banale, non sono stati rari casi di premi Nobel che si sono lasciati andare a commenti infelici su temi di cui non erano esperti (talvolta quasi al limite del ridicolo).

Per chi sostiene ancora che il latino aiuti a “imparare a ragionare”, per me sicuramente non è stato così. Il beneficio di avere una cognizione molto vaga delle origini di alcuni termini è stata l’unica cosa che sento essermi rimasta dallo studio del latino.

Ciò per cui la Sayers sostiene sia utile il latino, è ciò che più viene stimolato dallo studio di un linguaggio di programmazione. Quella stessa educazione al formalismo che è necessaria nello studio della matematica, della fisica e di quelle che vengono definite “scienze esatte”. E non lasciamoci ingannare dai termini però, qui “esatte” significa “non soggettive” molto più che “certe” o “compiute”. La forza della scienza è il suo essere confutabile.

Questo non vuol dire che il latino non possa assolvere a questo scopo, sicuramente non è l’unica possibilità.

Il mondo infestato dai demoni. La scienza e il nuovo oscurantismo (Carl Sagan, 1997)6 è un’ottima guida all’applicazione del metodo scientifico per sfuggire da quelle fallacie logiche che troppo spesso attanagliano le conversazioni.

La meravigliosa fatica della scoperta

Dopo aver detto tutto ciò mi sembra quanto meno doveroso provare a trarre delle somme. Com’è sicuramente chiaro, non credo esista una risposta assoluta a queste domande. Non esiste adesso e forse non esisterà mai. È questo l’aspetto prioritario che mi preme di sottolineare. La conoscenza e la cultura umana procedono e cercano nuove vie continuamente, abbiamo continuato ad insegnare la lingua latina per secoli e continueremo probabilmente a farlo per secoli. Trovo però molto ingenuo supporre che il percorso formativo di ogni giovane possa continuare ad includere il latino anche tra due secoli.

Sono convinto che il metodo scientifico sia l’unico faro della conoscenza umana e che guidati da questa luce non si possa che proseguire per tentativi ed errori cercando la soluzione che più si presta ai nostri tempi. Mi sento di poter dire che in questo momento una visione puramente classicista è chiaramente troppo distante dalla realtà delle cose.

Eppure c’è grande valore nello studio del pensiero dei nostri avi. Vorrei che chi crede di poter plasmare il mondo che ha attorno, dedicasse più tempo prima a scrutare dentro di sé. E sicuramente gli può essere più utile un imperatore romano del secondo secolo7, che un manuale di programmazione.

Ma è il fiorire di questo confronto che permette di cogliere i vecchi e nuovi errori che si commettono ogni qualvolta si adotta un nuovo metodo, esponendo i punti deboli rispetto al precedente, in un inesauribile processo d’innovazione e rifiuto, poi di confronto e infine di sintesi.

Sforzatevi ogni giorno di ricordare cos’è l’acqua in cui nuotate.8 E tenete sempre a mente che, in ogni caso, cosa sia davvero quell’acqua, non l’avete capito ancora.

Footnotes

  1. Proverbio latino di autore ignoto. Fonte: List of Latin phrases (U).

  2. Erasmo da Rotterdam, Moriae encomium (Elogio della follia, 1511). Voce di riferimento.

  3. Se davvero vuoi una panoramica sulla cromodinamica quantistica, vedi Quantum chromodynamics.

  4. Dorothy L. Sayers, The Lost Tools of Learning (Oxford, 1947). Testo integrale.

  5. Introduzione sintetica al trivio e al quadrivio in Arti liberali.

  6. Carl Sagan, Il mondo infestato dai demoni. La scienza e il nuovo oscurantismo (Baldini & Castoldi, 1997; trad. Libero Sosio). Scheda.

  7. Marco Aurelio, Meditazioni. Testo di pubblico dominio.

  8. David Foster Wallace, “This Is Water” (Discorso a Kenyon College, 2005). Trascrizione.